Martedì 24 Gennaio 2012 11:03

Testo critico di Emilia Valenza

Scritto da  Emilia Valenza
Valuta questo articolo
(3 Voti)

“Tuttavia le immagini sono talmente semplici, talmente sacre, che spesso si ha paura di descriverle… Pieno di merito, ma poeticamente, abita l’uomo su questa terra.” F.Hölderlin

Trovare un accesso all’universo poetico di Sandro Bracchitta non è un’operazione immediata, come non è esplicita la dimensione evocativa che il suo operare attento e discreto crea magistralmente nello spazio della rappresentazione. Tempo e spazio in questo luogo della creazione richiedono un approccio meditato, una disposizione dell’animo all’ascolto, alla sospensione, alla dilatazione oltre l’hic et nunc della visione apparente. Certo nulla è quello che si mostra: la ciotola, la sedia, l’abito, la casa sbriciolano la loro identificazione oggettuale per diventare simboli di una modalità del vivere ed essere nell’universo, essere poeticamente dentro le cose del mondo, dentro e fuori la natura delle cose, ma anche solo respiro che si effonde e riempie di sé l’esistente. La casa rossa di Bracchitta aderisce in qualche modo alla visione heideggeriana dell’ ”abitare” di Friedrich Hölderlin, abitare nel senso di “esserci” per costituire parte meritevole di questo mondo e cogliere poeticamente l’essenza delle cose. L’uomo meritevole è anche l’artefice del proprio destino e s’interroga sul rapporto tra l’aldiquà e l’aldilà. Bracchitta è mosso quasi da un’ansia escatologica che si manifesta in una visione primigenia della natura, che l’uso magistrale della tecnica calcografica, attraverso l’uso del carborundum e della puntasecca, restituisce nel magma indistinto delle superfici. Affiorano le tracce di una geologia remota, stratificazioni terrestri che nel passare dei millenni hanno inglobato i segni del passaggio umano (Sedia Rossa, 2004; Attesa Rossa, 2003); altrove lo spazio è di un blu intenso forato da mille buchi neri, con vaporose sostanze che si sollevano come masse di nubi addensate di un altrove indistinto al di là del cielo; dallo spazio dell’iperuranio, il platonico mondo dove nascono le idee, la piccola casa rossa compie il suo viaggio verso la terra, portando con sé l’idea originaria di un abitare incontaminato, caricato di un valore puramente esistenziale (Equilibrium. A, 2009).

Le dodici opere raccolte in questa piccola mostra, sintesi di quasi un decennio di attività dell’artista ragusano, raccontano di un’elaborazione progettuale che svilupperà vieppiù i concetti del “contenere”, dell’attesa, del nutrimento, dell’accogliere, e infine dell’abitare. All’inizio è un dialogo con la natura (Apriti e Contienimi, 2001): l’artista la penetra con il suo segno netto, con un cono che sembra trivellare la terra per conficcarvisi dentro e trovare dimora, in una superficie scarna, chiara, fatta di sola luce, che esalta il tratto veloce e curvo di un movimento rotatorio. Arte e natura si fondono in una relazione assoluta, totalizzante e fecondatrice. L’abito femminile è l’involucro della gestazione, è l’utero che contiene la vita, il simbolo di un flusso vitale che sostanzia le cose. Non nasconde l’artista la sofferenza e la violenza che sottendono il processo della creazione, così la veste si colora di nero e un rivolo di rosso intenso come sangue scorre sul suo ventre pieno (Attesa Ciclica, 2003). Poche altre presenze, semplici oggetti quotidiani, rivelano con asciuttezza la bellezza di una dimora che nutre e accoglie. La ciotola e la sedia sono simboli della permanenza, del perdurare nel tempo di una ritualità sacra, che unisce in un connubio indissolubile l’uomo e il creato. Ma solo all’artista, anima eletta sul vertice di una piramide che punta il vertice nelle sfere dello “spirituale” (di kandiskiana memoria), è dato sentire la forza e il mistero del cosmo e sentirsi parte di esso, e poeticamente o pittoricamente abitarlo.

Nelle opere del 2009 appaiono con più evidenza quelle forme appuntite che all’inizio spingevano da qualche parte per insinuarsi nello spazio della rappresentazione. È “qualcosa di potente, che raggiunge il lavoro, lo contiene, lo morde… il dente di Dio” osserva Bracchitta, come a voler restituire ad una superiore volontà la decisione suprema sul destino dell’uomo. La piccola casa rossa è ora in balia di due minacciose stalattiti gialle, in un equilibrio instabile a simboleggiare la precarietà dell’esistenza (Casa Rossa, 2009).

L’immagine della casa che piange riempiendo con le proprie lacrime la rossa ciotola stretta tra i due denti aguzzi ci sgomenta e ci lascia attoniti, nella tragica consapevolezza che quella “solidità” tanto cercata nell’abitare, nella casa-rifugio, possa drammaticamente liquefarsi nel vuoto dell’esistenza.

La sostanza delle riflessioni che l’artista ha intrecciato nel tempo ormai maturo della sua poetica trova del resto una corrispondenza perfetta nel linguaggio calcografico che domina con assoluta chiarezza. Le superfici dove si raggrumano le tracce della polvere del carborundum, le nervature che penetrano dentro la materia, l’apparire di segni grafici apparentemente casuali e il disegno essenziale, costituiscono la tramatura simbolica più consona a quell’universo archetipico di cui l’artista si fa interprete e cantore.

Emilia Valenza

Vai Su